Convivere con il lutto e con il dolore
A partire dal 23 febbraio 2020 un accavallarsi di provvedimenti, un incalzare di drammi umani, un duro compito di assistenza della SOCREM Torino.
L’emergenza Covid-19
di Fabrizio Gombia
Consigliere Delegato della SOCREM Torino
Il 23 febbraio le prime disposizioni di contenimento dell’emergenza epidemiologica hanno determinato l’impossibilità di eseguire i riti funebri di commiato. Dal 24 febbraio, infatti, è stato necessario chiudere le sale del commiato e le sale per la consegna delle urne cinerarie, con la conseguente sospensione di ogni ritualità di accompagnamento. Ciò non ha, ovviamente, comportato una interruzione del servizio, in quanto i riti di commiato e di consegna dell’urna cineraria sono attività che non ricadono nella classificazione di servizio pubblico essenziale.
Ma l’offerta di un rito – prima del commiato poi di consegna dell’urna contenente le ceneri – è una tradizione culturale che ci accompagna da anni e che ci caratterizza, è parte integrante del nostro modo di operare. Da oltre trent’anni abbiamo imparato, o proviamo a farlo, a convivere con il lutto e con il dolore; abbiamo condiviso con i parenti il dramma della separazione, abbiamo fatto di tutto per attribuire a quei momenti dignità e consapevolezza.
Successivamente il D.P.C.M. dell’8 marzo ha stabilito la sospensione dei riti funebri, consentendo che i funerali potessero svolgersi, sostanzialmente, con la presenza di due famigliari al massimo, senza la possibilità di accedere alle sale del commiato, con i feretri ed i pochi
congiunti accolti all’aperto senza alcun momento rituale.
Un semplice trasporto funebre.
Un momento traumatico, le cui conseguenze sono difficili da valutare. Perché l’emergenza epidemiologica ha impedito anche la possibilità di una elaborazione del lutto, negando alle famiglie la condivisione del momento luttuoso, la possibilità di ricucire la lacerazione del tessuto sociale che la morte rappresenta, con la sua socializzazione, attraverso un momento rituale, fosse anche un silenzio, ma non imposto dall’assenza. Ha uniformato tutti i defunti in un’unica ritualità, quella determinata dalla solitudine di colui che muore e di coloro che per quella morte provano dolore.
Le molte persone che nei mesi di marzo e aprile sono morte in ospedale o in RSA, ci hanno lasciato senza avere la consolazione dello sguardo di un figlio, del sorriso di un nipote, della mano stretta in quella del proprio compagno di vita. Senza essere salutati: ciò che non era immaginabile potesse accadere è diventato un’esperienza nella vita di molti.
Una malattia che ti isola non è più solo una malattia, ti rende invisibile; la sensazione di fragilità, resa più forte e più imminente dalla pandemia, si è accompagnata con una condizione nuova, con cui le famiglie ed i malati sono stati costretti a confrontarsi, una esperienza
con cui l’emergenza ci ha costretto a convivere in questi mesi.
Ciascuno muore solo, è vero, ma l’esperienza della pandemia ha aggiunto altro dolore a questa solitudine interiore. Senza lo spazio ed il tempo per la condivisione del dolore, senza la compassione.
Tutto questo è stato avvertito, vissuto, sofferto, anche dai nostri collaboratori, coloro che, con i pochi famigliari, con questa solitudine quotidianamente si sono confrontati svolgendo il proprio lavoro. Sentendo tutta la propria impotenza ma cercando comunque di
portare quel conforto di cui avvertivano concretamente il bisogno.
Le cifre dell’emergenza che potete leggere qui danno la misura di ciò che è stato questo momento.
Il numero di funerali destinati in cremazione ha avuto un incremento mai registrato negli anni precedenti: dal 15 marzo a Torino sono raddoppiati, in aprile triplicati, mentre a Mappano si registravano arrivi di feretri anche dalla Lombardia.
Fin da febbraio abbiamo adottato un protocollo di sicurezza, che è stato poi via via aggiornato in conseguenza delle nuove disposizioni.
Per fortuna avevamo già sufficiente disponibilità di dispositivi di protezione individuale, anche delle vie respiratorie, e siamo riusciti ad avere gli approvvigionamenti necessari.
Per rispondere all’incremento di richieste di cremazione si è lavorato su più turni, anche notturni; per il personale che ha operato nell’infuriare della crisi è stato stanziato un premio economico significativo, meritato ma pur sempre inadeguato a ricompensarne il sacrificio e l’abnegazione. Perché non è stata solo una questione di fatica (emotiva oltre che fisica); al senso d’inquietudine e alla sensazione di vivere come in un tempo sospeso, che questa emergenza ha creato, si è aggiunta un’atmosfera resa ancora più pesante dallo stravolgimento delle nostre abitudini più consolidate, con l’obbligo del “distanziamento” che colpiva al cuore proprio la tradizione comunitaria della nostra attività e della nostra ritualità.
Una sensazione di solitudine che però, pur nel rispetto rigoroso del distanziamento fisico imposto dalle norme e dalla tutela di ciascuno, ha “avvicinato emotivamente” il gruppo, anche nella compassione e nella condivisione del dolore degli altri.
Leggi altri dati: